Valter VELTRONI - Presidente del Consiglio Maggioranza
XIII Legislatura - Assemblea n. 513 - seduta del 26-03-1999
Sugli sviluppi della situazione in Albania
1999 - Governo I Prodi - Legislatura n. 13 - Seduta n. 173
  • Comunicazioni del governo

signor presidente , colleghi deputati, un dossier di Amnesty International racconta con queste parole l' Odissea del Kosovo, un' Odissea che può essere racchiusa in due cifre, 2 mila morti negli ultimi mesi, 460 mila profughi: « ognuno di loro » — scrive Amnesty International — « ha una storia spaventosa da raccontare: alcuni descrivono come nei villaggi sono state uccise le loro famiglie o i loro vicini durante i raid di rappresaglia della polizia serba, altri parlano degli abusi perpetrati dall' opposizione armata dell' Uck. le loro menti sono indurite da immagini terribili, camminano tra file di corpi morti prima di poter identificare quelli delle proprie famiglie, scavano nelle fosse comuni, fuggono dalle case e dai villaggi che temono non potranno più vedere » . il 15 gennaio scorso, a Raciak 45 kosovari sono stati massacrati dalle truppe serbe; il racconto dell' ambasciatore Walker, capo dei verificatori dell' Osce, è impressionante: « molte delle vittime erano anziani, molti colpiti a distanza ravvicinata, molti colpiti alla fronte e alla nuca, non ho le parole per descrivere l' orrore che ho provato insieme a quelli che erano con me alla vista di quella che può essere descritta solo come un' indicibile atrocità; anche se non sono un uomo di legge, quel che ho visto personalmente non esito a descriverlo come un massacro, un crimine contro l' umanità, né ho esitazione ad attribuirne la responsabilità alle forze di sicurezza governative » . mentre ascoltavo gli interventi dei colleghi, ho letto su un dispaccio di agenzia che mi è stato appena consegnato che ancora in queste ore vi sono stragi di innocenti nel Kosovo: venticinque persone, tra cui molte donne e bambini, sono state decapitate e brutalmente mutilate sotto gli occhi inorriditi dei loro cari da un commando delle forze di sicurezza serbe in un piccolo villaggio del Kosovo al confine con l' Albania. questo è l' abisso di violenza e di dolore nel quale è precipitato il Kosovo. quando la parola passa alle armi, nessuno può più dirsi innocente, ma in Kosovo non c' è una guerra civile : c' è un' operazione di pulizia etnica contro un piccolo popolo di meno di 2 milioni di persone, al 90 per cento di etnia albanese; un piccolo popolo che Slobodan Milosevic nel 1989 ha privato dell' autonomia di cui godeva nello Stato jugoslavo ed ha ridotto ad una qualsiasi regione amministrativa della Serbia; un piccolo popolo al quale è stato tolto il diritto ad usare la sua lingua e a mantenere le sue istituzioni culturali, un piccolo popolo al quale è stato sciolto il governo regionale, un popolo che per anni ha chiesto gli venisse restituita l' autonomia e che ha avuto in cambio i carri armati , i massacri, le atrocità contro i civili, l' esodo di centinaia di migliaia di profughi. dinanzi a questa situazione, dobbiamo innanzitutto chiederci se poteva essere evitata: la responsabilità di una prevenzione politica della tragedia balcanica era principalmente assegnata dalla storia e dalla geografia all' Europa, ma l' Europa non ha saputo mostrarsi all' altezza del compito e delle attese. le crisi vanno prese per tempo se non si vuole che le armi diventino l' unica soluzione: la pace è una costruzione; finito il mondo separato in blocchi, stabilità e sicurezza devono essere costruite giorno per giorno. ed invece l' assenza di una politica di sicurezza comune e di una capacità militare europea, insieme alla fragilità dell' Onu, sottoposta al sistema dei veti paralizzanti, hanno a lungo sancito l' impotenza della comunità internazionale ed hanno lasciato la regione balcanica in preda alla violenza (prima la Croazia, poi Sarajevo e la Bosnia, ora il Kosovo). nel 1995, dinanzi alla tragedia jugoslava, un grande pacifista del quale tutti sentiamo la mancanza, Alex Langer , osservava: « si può decidere che il diritto internazionale deve semplicemente abdicare, ma sarebbe una decisione pesante e vergognosa, perché vorrebbe dire che ognuno fa per sé e che il più forte sul campo detta legge, senza che nessuno possa o voglia contrastarlo; oppure si può decidere che un ordine vincolante per tutti deve farsi rispettare. sarebbe preferibile se ad intervenire fossero i soldati di pace dell' Onu: nelle condizioni attuali, tuttavia, l' Onu deve chiedere a chi può, alla NATO in buona sostanza, di svolgere tale compito » . l' intervento della NATO, come sappiamo, ci fu, anche se con gravissimo ritardo: i massacri furono fermati e si arrivò per la Bosnia alla pace di Dayton. anche in Kosovo l' Europa e l' Occidente sono in ritardo, per troppo tempo hanno ignorato le giuste e ragionevoli proteste dei kosovari albanesi e la voce non violenta di Rugova, che chiedevano solo il ripristino dell' autonomia. il risultato è stato l' inasprimento del conflitto, la radicalizzazione della resistenza kosovara. ma adesso, dinanzi a questa catastrofe umanitaria, che cosa deve fare la comunità internazionale ? dopo l' ostinato rifiuto della Serbia di firmare un accordo a Rambouillet, che prevedeva l' integrità del territorio jugoslavo, la concessione al Kosovo dell' autonomia e non dell' indipendenza, l' attenuazione progressiva delle sanzioni, l' invio di una forza di interposizione umanitaria non necessariamente NATO, anche Osce, anche a forte presenza russa, dopo il no di Milosevic ad un accordo così ragionevole, che cosa è giusto fare? è giusto rassegnarsi, come ci ha ricordato De Mistura , il rappresentante dell' Onu in Italia, come in Ruanda? far digerire, quindi, alla nostra coscienza un milione di morti? io credo di no, io credo che quando le armi della diplomazia non ce la fanno, talvolta può essere doveroso, tanto quanto doloroso, usare la forza per difendere i più deboli. a volte, ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan , l' uso della forza si può giustificare per fini di pace. i diritti umani non hanno colore, si tratti del Kosovo, del Kurdistan o del Ruanda, noi chiediamo una forte reazione morale, civile e una forte pressione politica e diplomatica. capisco le ragioni profonde di chi non riesce ad accettare la responsabilità di consentire l' uso della forza, sono ragioni radicate nella storia della sinistra e nella coscienza democratica di tutti noi, anche della mia — come tutti sanno — , ma cercando nelle ragioni di inquietudine personale, e ascoltando le posizioni di altri, non ho trovato la risposta alla domanda dalla quale sono partito: cosa fare? cosa fare per quelle centinaia di migliaia di esseri umani divenuti dei dannati della terra? siamo tutti turbati dai bombardamenti sulla Serbia, ma con rammarico ed angoscia dobbiamo riconoscere che la Serbia non ha voluto offrire alcuna alternativa che non fosse quella, assolutamente inaccettabile, di considerare la tragedia del piccolo popolo del Kosovo come una questione interna alla federazione jugoslava. noi chiediamo alla Serbia, al presidente Milosevic di offrire questa alternativa; noi non consideriamo né la Serbia, né il presidente Milosevic come nostri nemici; noi chiediamo loro di restituire l' autonomia al Kosovo e di far cessare qualunque atto di violenza in quella regione e consentire che tutto ciò avvenga sotto il controllo di una Forza multinazionale di interposizione umanitaria. in altre parole, chiediamo alla Serbia un atto di civiltà e di umanità. allo stesso tempo, chiediamo al governo italiano , che ringraziamo per il grande impegno profuso nella ricerca di un' intesa politica che evitasse l' uso della forza — un Governo la cui stabilità ha un valore particolare — di continuare ad adoperarsi, in sede di Alleanza Atlantica , affinché l' uso della forza resti sempre finalizzato alla ripresa della trattativa di pace. per questo ribadisco la nostra proposta; dopo questa fase dell' intervento, d' intesa con i nostri alleati, occorre verificare, naturalmente all' interno di una sospensione dei bombardamenti, se esista ancora un piccolo spazio negoziale, la cui condizione è l' immediata cessazione delle azioni di repressione serba nei confronti del Kosovo. se questo spazio c' è, bisogna percorrerlo, magari riunendo un gruppo di contatto, come proposto dai russi e condiviso dal governo italiano , così come ci ha detto il presidente D'Alema . permettetemi di porre schiettamente a tutti noi un problema che riguarda i prossimi giorni, le prossime ore: la guida politica di questa operazione deve essere forte e determinata, il rischio di una escalation che non raggiunga i risultati previsti è obiettivo, quindi l' azione militare e quella politica devono integrarsi in ogni momento. il rischio, infatti, è che questo inevitabile intervento si sviluppi senza quella che il Washington Post chiama una « strategia di uscita » . il Papa ha detto: « quanto prima tacciano le armi e riprenda la trattativa » . è una strada lungo la quale noi italiani possiamo svolgere una funzione del tutto particolare, come facemmo quando, d' intesa con il presidente Eltsin, spingemmo per il viaggio di Kofi Annan a Bagdad. noi dobbiamo e possiamo essere, nella nostra fedeltà all' alleanza internazionale, i costruttori di uno sblocco di questa crisi, che, per ragioni umanitarie e politiche, è la più grave del dopoguerra europeo. signor presidente , colleghi deputati, quando il diritto e la politica si paralizzano a vicenda vi è un terzo aspetto che diventa centrale e decisivo, cioè quello etico. dinanzi alla catastrofe umanitaria abbiamo il dovere di intervenire; con timore e angoscia, ma anche in serena coscienza, dobbiamo assumerci questa responsabilità, ma dobbiamo farlo senza mai perdere la consapevolezza che la politica può costruire soluzioni di convivenza fra i popoli, le etnie e le religioni: è questa, per tutti noi, la sfida decisiva di questa fine Novecento.