Valter VELTRONI - Deputato Opposizione
XII Legislatura - Assemblea n. 85 - seduta del 26-10-1994
Modifiche alla legge 1 marzo 1986, n. 64, in tema di disciplina organica dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno
1994 - Governo I Amato - Legislatura n. 11 - Seduta n. 108
  • Mozioni, interpellanze e interrogazioni

mi ha fatto molto riflettere la motivazione con la quale i deputati di alcune forze della maggioranza hanno ritenuto di dover proporre di non concedere la ripresa televisiva della seduta. a ben guardare, mi pare che in quella scelta vi sia la ragione ultima del dibattito che svolgiamo questa sera. perché la televisione no e la radio sì? nelle motivazioni che sono state portate si è detto che le immagini hanno un potere particolare. qualcuno ha sostenuto che la trasmissione in televisione di questa seduta avrebbe portato un effetto di spettacolarizzazione della seduta stessa. credo sia un' affermazione importante, che ci introduce esattamente al tema che questa sera è intenzione dei parlamentari che hanno sottoscritto la richiesta presentata da Mario Segni discutere. dunque, non secondo l' opposizione ma secondo autorevoli rappresentanti dei gruppi della maggioranza la televisione può modificare la natura delle cose; può persino alterare i comportamenti di un' Assemblea parlamentare . è il potere della TV, è la diversità della televisione rispetto agli altri mezzi di comunicazione. per parlare di questo, siamo qui. lo so, esistono tante persone, anche nella vita politica del nostro paese, che odiano la televisione, che pensano sia uno strumento del demonio e contro questa si sono scagliate e si scagliano. so che vi è un' attenzione culturale nei confronti dei pericoli che sono racchiusi nell' affermazione del potere televisivo. ho ascoltato anni fa un uomo come monsignor Tonini parlare della necessità del « digiuno Degli Occhi » . si leggono — lo ha citato prima Mario Segni — testimonianze come quella di Karl Popper. tuttavia credo che combattere la televisione sia un errore, non solo perché impossibile (si tratta di avere l' ambizione di frenare l' innovazione, lo sviluppo, la crescita naturale di una tecnologia che non può che essere aperta ad immensi sviluppi), ma per un' altra ragione: la televisione può anche essere un grande strumento di universalizzazione del sapere, di diffusione delle conoscenze. può aiutare la crescita della fantasia e della capacità di immaginazione degli esseri umani . « può » ; e in questo verbo è racchiuso esattamente il cuore delle scelte che dobbiamo assumere. può, ma dipende da qualcosa e da qualcuno. dipende da noi: è la nostra grande responsabilità, quale che sia l' appartenenza politica di ciascuno. e bene ha fatto Mario Segni a sollecitare questa discussione parlamentare. qualcuno ha detto che un altro dei buoni motivi per i quali la trasmissione televisiva della seduta era inopportuna è che nel paese non vi sarebbe grande interesse per questi temi. se così fosse, dovremmo preoccuparci, perché la televisione e l' informazione sono una sorta di cartina di tornasole della quantità di democrazia reale di un paese. da questo punto di vista — dobbiamo dirlo schiettamente — l' Italia è un paese malato. la malattia, che è una malattia democratica, risiede nella televisione, nel duopolio televisivo, nel monopolio privato della televisione. tutte le democrazie occidentali — si pensi a tutti i riferimenti che abbiamo assunto insieme, nel corso del tempo, come modelli di sviluppo della nostra democrazia — hanno scelto di legiferare nel campo della televisione con una particolare cura, riconoscendo quella diversità della quale, appunto, abbiamo parlato e che è una delle ragioni per le quali la seduta odierna non viene trasmessa. la televisione, cioè, è una macchina particolare e, dunque, richiede disciplina legislativa particolare. in Francia, in Germania, in Inghilterra o negli USA — che hanno le rules regulations , che sono uno strumento di intervento molto deciso contro il formarsi dei trust e a presidio del pluralismo delle informazioni — , in tutte queste democrazie si è scelto di legiferare in maniera speciale su tale materia, perché la televisione è la più potente macchina di informazione di cui l' uomo possa disporre. la televisione annulla il tempo e lo spazio, è una straordinaria magia, scandisce la gerarchia delle nostre ansie, persino delle nostre speranze. quando parliamo di televisione non ci riferiamo alla produzione di un bene quale potrebbe essere per esempio un aspirapolvere; no, parliamo della principale macchina di sapere e di informazione, di intrattenimento e di consumo. dunque, quando ne parliamo e quando trattiamo delle scelte legislative conseguenti, credo che il nostro sguardo e la nostra attenzione debbano essere rivolti a chi siede davanti alla televisione, a chi guarda la televisive. credo sia utile ricordare che la potenza della televisione è tale da consentirle di intervenire persino nel formarsi di quella sfera così riposta nel segreto della coscienza delle persone, la sfera delle emozioni. molti anni fa un bambino giocava in un prato vicino Roma, cadde in un buco della terra e ad un certo punto, in un fatto di cronaca come mille altri se ne sono visti e se ne leggono sui giornali, spesso in due righe o in due colonne nella pagina degli Interni, arrivò la televisione che raccontò per due intere nottate quella tragedia, che divenne una grande tragedia collettiva del paese; che fu vissuta come tale e che oggi è ricordata dall' intero paese. la televisione è una macchina potentissima e se si intreccia con il potere politico crea una combustione mortale. in tutti i paesi, come dicevo prima, democrazia è divisione dei poteri. vorrei partire da questo per rivolgermi a tutta l' Assemblea; non vorrei parlare né per confortare i compagni del mio gruppo o dei gruppi che come me la pensano, né per demonizzare gli avversari, coloro che oggi sono nella maggioranza di Governo. parlo in difesa della sovranità della politica. l' Italia è quindici anni indietro rispetto allo sviluppo tecnologico degli altri paesi; ha perso il treno in anni decisivi, negli anni 70 e 80. certo, ciò si è verificato per ritardi culturali di tutti, anche per ritardi culturali della sinistra, che non ha capito per tempo la grande sfida che veniva proposta dall' innovazione tecnologica applicata alle comunicazioni. ma vi è una ragione politica ben più grave e pesante: essa va collocata nell' estate di quattro anni fa, quando fu approvata in quest' Aula la legge Mammì. quello fu — 10 dico molto pacatamente — il momento più basso della vita politica — e soprattutto della autonomia della politica — che il paese abbia conosciuto negli ultimi anni. noi conducemmo una battaglia aspra, ma in quell' occasione si consumò una doppia sconfitta, perché non solo fu persa una battaglia contro il formarsi dei trust ma fu sconfitta l' idea che la politica potesse decidere, potesse assumere autonomamente scelte fondamentali in un comparto decisivo della vita del paese. per i partiti del Caf fu un' occasione ghiotta per cercare di estendere la capacità di controllo sull' informazione. ora il tempo e la memoria fanno giustizia di molte di quelle battaglie e tuttavia quella ferita rimane aperta. la legge Mammì non partì dalle esigenze del paese, ma da quelle di un gruppo imprenditoriale. quel gruppo imprenditoriale per più di dieci anni sostenne che non doveva varare una legge e la legge non fu varata. intervenne poi una sentenza dei pretori, quindi fu approvato un decreto per riaccendere le televisioni e si continuò a tenere il paese in condizioni di non legiferare in un settore decisivo. infine, quando stava per arrivare una sentenza della Corte costituzionale che avrebbe decretato l' incostituzionalità di quel decreto, fu approvata in tutta fretta la legge Mammì. ciò non avvenne senza un prezzo. conducemmo allora — anch' io, personalmente — una battaglia molto dura nei confronti di Berlusconi; una battaglia non contro di lui né contro coloro che in quel gruppo lavorano né contro quel gruppo, ma avverso la posizione dominante, chiunque quella posizione avesse rivestito. mi capitò di affermare allora che così facendo lo stesso gruppo Berlusconi ci rimetteva in termini di autonomia, che è ciò che un imprenditore nel campo della comunicazione dovrebbe tenere più da conto. anche la Fininvest, infatti, pagò un prezzo: per avere quella legge — o, prima, per non averla — ha dovuto cedere in termini di autonomia. mi è tornata alla memoria una dichiarazione dell' attuale presidente della Fininvest, Fedele Confalonieri, che nel 1989, in un' intervista sul L'Europeo disse: « la nostra informazione sarà omogenea al mondo che vede nei Craxi, nei Forlani e negli Andreotti l' accettazione delle libertà » . questo fu il prezzo pagato e fu un prezzo alto, non tanto per il gruppo Fininvest — che probabilmente ne avrà tratto un beneficio immediato — , quanto per il paese. quella legge fu una sorta di « polaroid » di una situazione esistente, di istantanea. la politica rinunciò ad armonizzare la crescita in un comparto decisivo con le esigenze collettive di questo paese. ora la situazione si è aggravata e quello italiano è davvero un caso nel campo della comunicazione; un caso pesante per la nostra democrazia. i peccati dell' attuale sistema informativo italiano sono almeno cinque. il primo è il grado di concentrazione, che non ha paragoni in nessun paese civile del mondo: il 38 per cento delle risorse pubblicitarie del sistema sono in un' unica mano, cosi come il 61 per cento delle risorse della televisione, il 90 per cento di quelle della televisione privata e il 34 per cento delle risorse dei periodici. tutte — lo ripeto — in una sola mano. se poi si unisce la Rai, l' 89 per cento delle risorse della televisione sono nelle mani di due soli gruppi, ciò che non accade in alcun paese civile del mondo. il primo peccato, dunque, è l' indice di concentrazione. il secondo è la crisi degli altri mezzi di informazione. dal punto di vista delle risorse pubblicitarie, la stampa è passata in dieci anni dal 46 al 39 per cento , mentre la televisione è cresciuta dal 42 al 53 per cento . il terzo peccato è la produzione nazionale: in Italia non si produce più industria culturale, non si producono film né fiction. esistono dati che sono stati resi noti ancora oggi: la produzione di fiction italiana è stimata per il 1995 in circa cento ore, laddove in Francia sono 810, in Gran Bretagna 1.000 ed in Germania 1.300. altro che made in Italy ! vi è poi la colonizzazione: un programma su dieci viene acquistato dall' estero e, infine, l' arretratezza tecnologica, sulla quale è intervenuto l' onorevole Bogi. il futuro ci scorre davanti veloce e noi lo vediamo solo passare. le autostrade informatiche, che sono la grande scommessa per lo sviluppo futuro della società italiana e di tutta la società moderna e che potranno portare a un aumento delle opportunità di investimento e di servizi, sono molto lontane da venire. il nostro è un sistema debole perché segnato dal monopolio interno. nel corso di questi anni abbiamo buttato miliardi per le star e siamo arretrati dal punto di vista del cavo, del satellite e delle nuove tecnologie che possono portare in questo paese occupazione, ricchezza e persino democrazia. il sistema, però, è debole anche per un' altra ragione: un sistema è debole quando non c' è concorrenza. questo, vorrei dirlo con molta schiettezza, è il nostro punto di vista . ci sono due modi di condurre la battaglia contro una presenza oligopolistica nel campo dell' informazione. un modo è quello statalista, quello di combattere la presenza dei privati per cercare di riportare tutto alla presenza pubblica. non è questo il modo che ci appartiene. vi è però un altro modo ed esiste un altro obiettivo che si può porre e ci poniamo, quello cioè di ricostruire il mercato dell' informazione. il mercato non nasce per caso ma è il prodotto di regole che non devono essere né punizioni né asservimenti. in Italia non c' è piena libertà di informazione: lo dimostra l' indice di concentrazione, ma anche il fatto che nessun gruppo privato entra nel campo della comunicazione televisiva. il pluralismo non è assicurato da un duopolio tra Rai e Fininvest e non può essere neanche visto all' interno di ciascuno dei due soggetti. vi è un solo pluralismo possibile in una società democratica e moderna, quello di tanti occhi che guardano, di tante voci che raccontano, di tante imprese tra di loro concorrenziali. è la par condicio della quale ha parlato il presidente della Repubblica , che deve però portare alla costruzione di un mercato dell' informazione, che nel nostro paese non esiste. e dal momento che tale mercato non esiste — voglio dirlo sinceramente — vedo un rischio di regime: misuro le parole, non le uso senza ponderare il loro peso. credo che anche i colleghi della maggioranza debbano intendere le ragioni per le quali usiamo questa espressione. in Italia vi è un' anomalia: il Governo è presieduto dal proprietario del più grande gruppo televisivo italiano, che ha un concorrente, la Rai, uno solo perché siamo in una situazione di duopolio. e più la Rai è debole, più le cose vanno meglio, evidentemente, per l' altro soggetto in gara nel sistema. da questo punto di vista , vogliamo indicare una preoccupazione principale per il destino del servizio pubblico radiotelevisivo. l' idea, l' impressione è che si voglia colpire il servizio pubblico , dimezzarlo, renderlo più debole. ho letto recentemente che si vuole persino introdurre un controllo bimestrale. ho poi ascoltato ciò che ha detto al riguardo il presidente della Commissione di vigilanza e sono d' accordo con lui: nessuna azienda al mondo potrebbe essere sottoposta ad un controllo bimestrale dei bilanci da parte di un' autorità pubblica. altro che mercato! ciò significa mettere fuori mercato un' azienda come la Rai. a tutto questo si aggiunge la sostituzione di dirigenti validi. chi ha una cultura dell' impresa e lavora in questo campo sa che esiste un criterio fondamentale: se un dirigente dà buoni risultati, è bene promuoverlo, sostenerne la carriera. alla Rai, invece, dirigenti di rete e di testata che hanno dato ottimi risultati dal punto di vista degli ascolti e della capacità di fare telegiornali o reti dotate della forza necessaria per stare sul mercato sono stati rimossi, immagino per ragioni che non attengono alla sfera aziendale. la Rai è una grande azienda che ha svolto una funzione importante nella storia italiana. vi è un immenso patrimonio di talento e di capacità professionali che è stato piegato in anni nei quali da un lato l' azienda è stata costretta ad una concorrenza strenua, e dall' altro è stata segnata da una occupazione partitica molto forte. ma questa azienda ha una sua storia. la Rai è stata uno strumento del Governo negli anni in cui vi erano le censure a Dario Fo o quando, nel 1974, durante la replica di uno sceneggiato come David Coppeffield, veniva tagliata la risposta « no » alla domanda di un personaggio se si sarebbe potuto o meno concedere il divorzio. erano gli anni nei quali fu trasmesso il processo di Catanzaro ma fu poi sostituito il direttore della rete che lo aveva trasmesso, gli anni in cui fu sostituito Andrea Barbato alla direzione del Tg2, sempre perché quello che costoro facevano non corrispondeva agli indirizzi, alle volontà, alle intenzioni di chi in quel momento deteneva il potere. a partire dal 1975, quando la Rai fu sottratta al controllo dell' Esecutivo, qualcosa è cambiato, qualcosa si è rotto. la Rai ha conosciuto alterne vicende, alterne stagioni di libertà; il pentapartito bloccò i vagiti di una riforma e di una autonomia del servizio pubblico . ma, colleghi, la storia della televisione si può fare in maniera obiettiva, e credo che questa sera vi siano le giuste condizioni di clima per farlo. io non ho mai negato al gruppo Fininvest, neppure nei momenti di scontro più duro, di aver svolto nella storia della televisione italiana una funzione importante, di introduzione della concorrenza, di modernizzazione. allo stesso modo, credo sia difficile negare il valore di alcune rotture di linguaggio che si sono verificate nella storia della televisione italiana, come quella rappresentata dalla terza rete. ci si chiede a chi abbia giovato tale rete; io non lo so, ma so che molti esponenti della maggioranza devono il loro successo al fatto di avere avuto su quella rete molte occasioni di confronto e di aver potuto far conoscere le loro opinioni, le loro idee, le loro posizioni. non solo non so a chi abbia giovato la terza rete, ma aggiungo che non mi interessa saperlo. penso che la storia di questi mesi difficili, di questi anni difficili della Repubblica italiana sia stata raccontata e, quando tra qualche anno si vorrà capire cosa sia accaduto in questo passaggio delicato e drammatico della vita italiana, si potrà risalire ad alcune di quelle trasmissioni. quella stagione ora finisce; non solo la stagione di quella terza rete, ma la stagione di un Tg1 che denunciava gli scandali di Ustica di un Tg2 che ha avuto momenti di coraggio. quella stagione finisce e purtroppo finisce con parole, quali « epurazione » , che fanno gelare il sangue nelle vene, quale che sia l' universo al quale vengono applicate. ma vorrei dire, peggio, che vi è una concezione che mi inquieta. Berlusconi ha detto l' 8 giugno, già da presidente del Consiglio : « è certamente anomalo che in uno Stato democratico il servizio pubblico vada contro la maggioranza che ha espresso il Governo » . e perché mai? perché mai dovrebbe essere anomalo e, naturalmente, perché mai dovrebbe esserlo anche il contrario? al servizio pubblico non si deve chiedere di essere in sintonia né con il Governo né con l' opposizione, quali che siano Governo e opposizione. è questa concezione che inquieta perché — badate — è la stessa che può riportare il servizio pubblico laddove è partito, ossia ad essere strumento della maggioranza di Governo, strumento del monopolio del potere democristiano che per molti anni in questo paese ha segnato il complesso dell' industria culturale. la televisione pubblica non deve essere né a favore né contro. deve guardare, deve raccontare, i suoi operatori devono lavorare nelle più alte condizioni di autonomia. provai a scrivere prima del voto, quando molti in questo paese immaginavano una vittoria dei progressisti, che se questi ultimi avessero vinto non si sarebbero consumate vendette, non si sarebbe punito ma si sarebbe cercato di trovare attraverso il concorso di tutti i soggetti, quelle soluzioni che meglio avrebbero potuto corrispondere all' esigenza di far convivere gli interessi del pluralismo con la situazione esistente. ha vinto invece lo schieramento opposto e vorrei dire con altrettanta forza che la maggioranza ha un dovere analogo. il pluralismo non può rappresentare la definizione di ciò che ci piace ed essere invocato come non esistente quando qualcosa non ci piace. il pluralismo è fatto di regole ed io so che l' opposizione ha un dovere. in un paese democratico l' opposizione non può portare solo il cartello dei « no » ; l' opposizione non può solo dire quello che non le piace. da questo punto di vista penso che persino il termine opposizione sia inadeguato e ritengo che più che opposizione dobbiamo rappresentare l' alternativa possibile e che di fronte ad ogni azione del governo che non ci piace dobbiamo indicare ciò che faremmo noi se governassimo, in modo tale che gli elettori i cittadini, possano valutare e giudicare. posso dire però che tutto questo lo abbiamo fatto nel campo dell' informazione. la proposta di legge che è stata presentata e che ha alcuni cardini molto forti corrisponde esattamente a questa visione. d' altra parte, lo abbiamo fatto anche con riferimento alla legge finanziaria , nella giornata di ieri. e dunque, una rete via-cavo per ciascun soggetto; distinzione tra chi fa televisione e chi distribuisce televisione; limiti alla raccolta di pubblicità per garantire che diversi soggetti possano entrare nel mercato; lotta alle posizioni dominanti. a ben guardare, tra queste posizioni e quelle espresse dal Partito Popolare , dal patto Segni e dalla Lega Nord vi sono importanti punti di convergenza e di intesa. vorrei fare un' ultima considerazione prima di concludere. in una passata seduta, quando si parlava del cosiddetto decreto Rai, si è svolta una pagina brutta nella storia del nostro Parlamento. credo — oggi non c' è la televisione, ma conta poco — che abbiamo un dovere nei confronti del paese. mi è venuto in mente quando, nel corso della prima seduta di questa legislatura, ho osservato che molti colleghi della maggioranza avevano appuntato alla giacca il distintivo di appartenenza al proprio partito. è un fatto che io rispetto, perché so quanto sia importante il senso di appartenenza alle idee, alle ragioni, ai valori nei quali si crede. tuttavia tutti noi dobbiamo ricordare, quando siamo qui dentro, tanto più alla luce del nuovo sistema elettorale , che noi rappresentiamo non solo le persone del nostro partito o schieramento, ma tutti i cittadini, verso i quali abbiamo un dovere di responsabilità. si è detto, e si dice: o di qua, o di là. ieri negli USA il sindaco repubblicano Giuliani ha scelto di sostenere il candidato democratico al governatorato di New York , Mario Cuomo. devo dire sinceramente che mi pare quello, in un paese di salde tradizioni democratiche, abituato al bipartitismo, un metodo da seguire. noi, invece, siamo ancora fermi ad un atteggiamento che appare come una sorta di caricatura: o di qua o di là! tutto questo — badate — riduce in maniera estremamente forte i margini della politica e, soprattutto, apre un conflitto permanente. questo Governo si trova infatti a vivere una situazione di conflitto permanente nei confronti di un po' tutti i soggetti: la magistratura, i sindacati e talvolta, spesso e volentieri, alte cariche istituzionali. mi chiedo quanto questa linea possa pagare e quanto il nostro paese possa sopportare una condizione di inasprimento... concludo, presidente, e mi scuso se ho utilizzato qualche secondo in più. penso che il paese abbia bisogno di serenità e di quella politica che si nutre di coraggio e di competenza, di quella politica capace di usare se stessa per convincere, per costruire, per decidere, in grado di sfidare i poteri e le resistenze forti. di questa politica c' è bisogno soprattutto avendo riguardo al cuore dei problemi della democrazia moderna, rappresentati dall' informazione, dalla comunicazione, dalla possibilità per ciascun cittadino di guardare, di leggere, di ascoltare e quindi di valutare con la propria testa!