Giulio ANDREOTTI - Presidente del Consiglio dei Ministri Maggioranza
X Legislatura - Assemblea n. 595 - seduta del 21-02-1991
Sulla situazione del Golfo Persico
1991 - Governo VI Andreotti - Legislatura n. 10 - Seduta n. 595
  • Comunicazioni del governo

onorevole presidente , colleghe e colleghi, viviamo in una situazione di attesa destinata a risolversi non appena conosceremo, a parte un possibile discorso di Saddam Hussein nella serata, la risposta che il ministro degli Esteri Tarek Aziz si appresta a fornire domattina al presidente Gorbaciov circa la volontà di Bagdad di ottemperare alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite . questa situazione è resa ancora più acuta dalla constatazione che il ritiro immediato, completo e senza condizioni dal Kuwait costituisce la sola via per evitare che il ricorso alla forza assuma una nuova dimensione con l' entrata in campo dei reparti terrestri riuniti nella coalizione. nell' intervento del 16 gennaio qui alla Camera avevo avuto modo di illustrare i numerosi tentativi promossi da ogni parte nella ricerca di una soluzione pacifica, ed in particolare gli sforzi della Cee e dei suoi paesi membri , a partire dall' invasione del 2 agosto scorso. nel mese ora trascorso dall' inizio delle ostilità, l' inevitabile brutalità del conflitto armato e i costi umani e materiali che esso ha sinora comportato hanno indotto ancor più la comunità internazionale a perseguire con tenacia ogni iniziativa capace di ridarci la pace nel rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite , di realizzare cioè quella « pace nella giustizia » che Giovanni Paolo II ha invocato ancora una volta domenica scorsa. il 29 gennaio scorso, al termine della visita del ministro degli Esteri sovietico Bessmertnyk a Washington, USA ed Unione Sovietica hanno invano rivolto all' Iraq l' invito ad un « impegno inequivocabile a ritirarsi, seguito da passi immediati e concreti diretti alla piena applicazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza » . il 4 febbraio successivo, il presidente iraniano Rafsanjani aveva esortato Saddam Hussein ad accogliere una sua proposta di mediazione, dicendosi disposto a svilupparla, nel caso di un riscontro positivo, con i paesi della coalizione. come lo stesso presidente ha poi dichiarato e mi ha confermato in una conversazione telefonica, la risposta irachena « non ha soddisfatto le aspettative iraniane » . ciò nonostante, il ministro degli Esteri Velayati ha continuato il suo sforzo; lo abbiamo incoraggiato a proseguire quando è venuto a Roma il 9 febbraio. senza seguiti è restata anche un' iniziativa pakistana, presentata il 6 febbraio scorso dal Primo Ministro , Nawaz Sharii , articolata in dei punti e che prevedeva, fra l' altro, il contestuale ritiro dell' Iraq dal Kuwait e delle forze della coalizione dall' Arabia Saudita . l' Unione Sovietica ha a sua volta avviato una mediazione con l' invio di Primakov a Bagdad l' 11 febbraio e con i contatti successivi. infine, Belgrado ha ospitato il 12 febbraio una riunione consultiva di una rappresentanza dei ministri degli Esteri dei paesi non allineati , nell' intento di esplorare nuovi spazi che prevenissero un' ulteriore scalata del conflitto. il governo italiano ha sempre ritenuto che fosse nostro compito contribuire al generale sforzo di mediazione per indurre Saddam Hussein a districarsi dal conflitto, attraverso procedure e modalità che, salvaguardando il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite , ne rendessero più agevole il ritiro dal Kuwait. in questo spirito abbiamo intensificato i contatti con i nostri partners europei, con gli USA, con l' Unione Sovietica , con i paesi arabi e con quelli islamici e, in vario modo, con lo stesso governo iracheno , ricevendo fra l' altro qui, con immediatezza, il nuovo ambasciatore accreditato, che, per altro, pochi giorni dopo veniva ritirato, nel quadro di un improvviso cambiamento generale di linea diplomatica deciso a Bagdad, dove con immutata ostinazione veniva respinta ogni ipotesi di ritiro dal Kuwait. con la dichiarazione rilasciata il 15 febbraio dal Consiglio del comando della rivoluzione iracheno abbiamo sperato — nonostante l' assurdità dei condizionamenti in essa contenuti — che vi fosse finalmente una possibilità di svolta, tale da consentire, evitando l' offensiva di terra, di raggiungere senza ulteriore sacrificio di vite umane — di militari e di civili — gli scopi per i quali le Nazioni Unite hanno mobilitato le loro forze. la speranza si è rivelata fin qui illusoria e tanto più amara a fronte dell' entusiasmo e dell' esplosione di gioia suscitata, per quel che si è appreso, tra la popolazione del tormentato paese, che per un momento aveva creduto fosse posta fine ai bombardamenti e alle privazioni. la dichiarazione contiene un solo elemento di novità nell' ammissione, per la prima volta dopo il 2 agosto (data dell' invasione), di poter accettare la risoluzione delle Nazioni Unite 660, che impone il ritiro totale e incondizionato dal Kuwait, richiamando quindi esplicitamente e direttamente il ruolo di una istituzione fino a ieri bollata come succube degli USA. ma la risoluzione 660 parla di ritiro totale ed incondizionato; ed invece il documento iracheno pone tutta una serie di condizioni, in numero addirittura superiore a quelle formulate subito dopo l' invasione, tra cui la singolare provocatoria pretesa di riparare i danni, non a titolo umanitario ma quasi che la responsabilità di quanto accaduto fosse dipesa da altri e non dal crimine internazionale perpetuato dal governo iracheno . il necessario coefficiente di riservatezza con cui si stanno svolgendo gli estremi tentativi per bloccare l' esca militare ed ottenere finalmente la resipiscenza irachena hanno suscitato — anche per un metodo non lodevole di giudicare e commentare fatti che non si conoscono adeguatamente — distorsioni informative che andrebbero evitate per non turbare ulteriormente la preoccupata opinione pubblica . il presidente Gorbaciov, che già il 14 febbraio ci aveva reso edotti del piccolo, possibile spiraglio aperto dalla visita del suo inviato a Bagdad Primakov, ci ha fatto pervenire lunedì sera un dettagliato messaggio sulla visita a Mosca dei due membri del governo iracheno , immediatamente ripartiti per riferire, senza aver opposto quell' atteggiamento pregiudizialmente negativo fin qui caratteristico di ogni contatto. è molto importante notare che l' Unione Sovietica si è mantenuta rigorosamente ferma nel richiedere l' integrale rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite e, quindi, l' immediato, completo ed incondizionato ritiro dal Kuwait, senza equivoci e dilazioni. in nessun modo, infatti, sarebbe possibile prevedere una soluzione che premiasse comunque l' aggressione e non ottenesse il ritorno del Kuwait alla sua sovranità ed indipendenza. questa crisi è iniziata per colpa del governo iracheno e continua a causa della sua intransigenza. Bagdad ha sfidato l' intera comunità internazionale rendendo vano finora ogni tentativo di soluzione negoziale, forse sperando, con calcolo che si rivela vieppiù temerario ed infondato, di logorare, aggravando i costi del conflitto, il consenso della coalizione. si commette così un ennesimo errore, scambiando per debolezza il senso di responsabilità degli alleati e per transazioni riduttive i buoni uffici di chi richiama Saddam Hussein alla realtà ed al dovere. proprio ieri, in risposta al presidente Bush, che ci aveva fatto pervenire le proprie valutazioni su alcuni aspetti del piano Gorbaciov, ho ribadito che non ci possono essere patteggiamenti per ottenere da parte di Bagdad il pieno rispetto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza . su questo punto la proposta sovietica non è affatto discordante, mentre contribuisce a mantenere salda la posizione espressa dalle Nazioni Unite . per questo non vedo sostanziale divergenza fra gli obiettivi di Washington e quelli di Mosca, una volta che Gorbaciov dichiara che anche un solo condizionamento (linkage) per accettare da parte irachena la restituzione del Kuwait è — cito le sue parole — « irreale ed inaccettabile » . né contrasta con questa impostazione l' aggiunta avanzata da Bush della restituzione immediata dei prigionieri. rimangono quindi intatti i due principi ai quali abbiamo ispirato la nostra azione: piena disponibilità ad effettuare ogni sforzo per la ricerca di una soluzione pacifica, da un lato; riaffermazione del principio che l' Iraq deve ottemperare, senza porre alcuna condizione, alle risoluzioni delle Nazioni Unite , dall' altro. per il dopo, la comunità internazionale ha più volte ribadito il proprio impegno ad affrontare ed avviare a soluzione (il presidente Bush citò esplicitamente il 1° ottobre all' Onu la Palestina ed il Libano) i numerosi problemi ancora aperti nell' area; ma questo impegno non potrà mai essere accreditato all' azione di chi ha violato così apertamente i principi del diritto internazionale , lacerando l' unità del mondo arabo ed arrecando al suo prestigio ed alle sue cause un gravissimo colpo. se per una sciagurata ipotesi la risposta di Bagdad dovesse essere ancora una volta negativa, credo che sarà evidente al mondo intero la responsabilità dell' Iraq nel respingere anche l' estrema occasione per non perseverare nella folle sfida al diritto delle genti . tutti sentiamo l' impatto emotivo di una tragedia che ci insegue con le sue immagini quotidiane, con la visione di tante vittime innocenti. alcuni episodi particolarmente gravi ci colpiscono nell' intimo del nostro spirito, ma nessuno può perdere di vista l' origine del tragico avvenimento e l' esigenza fondamentale di arrivare senza titubanze all' obiettivo che l' Onu ha fissato con una straordinaria compattezza. la posta in palio è proprio l' autorità dell' Onu e la sua possibilità di essere d' ora in poi la garanzia effettiva di una pace giusta attraverso una sicurezza collettiva anche delle nazioni più piccole e disarmate. questo, come ogni conflitto, comporta vittime incolpevoli e suscita dilemmi morali. e tuttavia proprio l' orrore della guerra deve consigliarci una riflessione per quanto possibile non emotiva. Saddam Hussein punta probabilmente sul contrasto tra le necessità operative della guerra e la sensibilità dei paesi della coalizione. dobbiamo evitare che la pietà delle nostre opinioni pubbliche si trasformi in un' arma nelle mani di chi si è già macchiato di tanti delitti: di chi, in passato, ha scatenato una repressione feroce contro la popolazione curda, distruggendo villaggi e deportando persone; di chi, dopo l' invasione, si è accanito contro la popolazione del Kuwait; di chi aveva trattenuto ostaggi alla vigilia del conflitto; di chi lancia in maniera indiscriminata missili sulle città di Israele come su quelle dell' Arabia Saudita ; di chi tende a mescolare strutture militari e popolazione civile. permettetemi, a questo punto, una riflessione. nessuno, forse, più di noi italiani, che abbiamo conosciuto la dittatura e che abbiamo dovuto sopportare gli orrori e le umiliazioni di una guerra che non sentivamo e, tanto meno, volevamo, può comprendere la necessità di tenere nettamente separate le responsabilità dei dirigenti da quelle di un popolo che dovremo al più presto aiutare per superare questa crisi e metterlo in grado di continuare a dare alla comunità internazionale il suo contributo in termini di prosperità e di pace. proprio per questa ragione il futuro che ci attende ci deve rendere ancora più coscienti delle maggiori responsabilità che abbiamo: quelle responsabilità che oggi ci hanno indotto a dare il nostro concorso convinto alla piena attuazione delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite e che domani dovranno renderci più pronti, più disponibili di altri a sviluppare forme concrete di solidarietà con il popolo iracheno . quando diciamo che la crisi attuale è stata determinata dal governo iracheno e che il suo superamento postula il ripristino dell' indipendenza e della sovranità del Kuwait non soltanto non vogliamo gettare colpe su un popolo che colpe non ha, ma dobbiamo altresì preoccuparci di non dare la sensazione che in questa posizione di principio vi sia qualcosa di anti-iracheno. al contrario, siamo determinati a fare in modo che, superata la crisi, l' Iraq concorra pienamente a garantire condizioni di sicurezza ed a sviluppare la cooperazione nell' area. anche questo mese di scontro diretto ha fatto emergere il disegno di Saddam Hussein e, quindi, le ragioni della scelta intesa ad arrestarlo sul nascere. esso ha reso evidente il rischio che avremmo corso se avessimo lasciata impunita l' aggressione. l' apparato militare di Bagdad ha confermato la sua capacità di offesa, resa più pericolosa dall' intenzione di Saddam Hussein di dotarsi di strumenti ancor più sofisticati, capaci forse un giorno di colpire anche lontano. sulla base di una tecnologia che già fa del suo esercito il quarto o il quinto del mondo, Saddam Hussein , rafforzandosi ulteriormente, avrebbe potuto presentarsi come il solo leader arabo capace di rimettere in discussione in ogni momento l' assetto territoriale del Medio Oriente . la ferma reazione delle Nazioni Unite a sostegno di altri paesi arabi, mettendo allo scoperto queste sue intenzioni già attuate contro il Kuwait, gli ha sottratto il tempo e le risorse per un ulteriore salto di qualità della sua cospicua potenza militare. il giorno in cui avesse messo a punto strumenti capaci di tenere sotto la minaccia di armi chimiche e persino nucleari l' intero Medio Oriente , non sarebbe stato più possibile fermarlo senza uno scontro ancora più distruttivo. non possiamo dimenticare che l' Iraq è già ricorso all' uso delle armi chimiche durante la guerra con l' Iran e contro la popolazione curda. questa valutazione, resa ancora più evidente dal conflitto, non può essere trascurata da quanti protestano contro l' uso delle armi e sembrano ignorare la vera natura del pericolo iracheno, le ragioni di una politica aggressiva già dispiegata e non retrocessa né ieri di fronte all' embargo, né oggi di fronte allo scontro armato e, direi, neppure l' altro ieri nei confronti sia dei paesi vicini, sia delle minoranze all' interno dei propri confini. oggi più che mai ci sentiamo di sottoscrivere l' affermazione di Norberto Bobbio: « non basta dire che la guerra era evitabile. occorre rispondere ad una seconda domanda: a quale prezzo? » . la resa a Saddam Hussein non sarebbe stata soltanto un' enorme ingiustizia, avrebbe significato anche la fine di una grande speranza storica. poiché è questa — lo ripeto — la vera posta in gioco . alle radici del conflitto non ci sono interessi economici, anche se non sottovalutiamo il rischio di un Saddam Hussein che controllasse, direttamente o indirettamente, la regione che contiene i due terzi delle risorse petrolifere mondiali. ma la determinazione dei prezzi del greggio, di per sé, non avrebbe mai portato né gli Stati arabi della regione, né tanto meno quelli dell' Occidente ad uno scontro militare. i precedenti, economicamente drammatici ma mai politicamente catastrofici delle crisi petrolifere del passato, stanno ad attestarlo. in realtà è in gioco, e continuerà ad esserlo in questi giorni come in quelli non meno facili del « dopo » , la possibilità di organizzare la comunità internazionale intorno ai valori condivisi dalla maggioranza del consorzio umano, i valori rappresentati dalle Nazioni Unite . intendo con ciò le regole del dialogo, del negoziato, del diritto internazionale , contro le logiche della violenza, della sopraffazione, della dittatura. ho già avuto modo di ricordare che non vi erano pozzi petroliferi da difendere quando gli americani sono venuti in Europa a liberarci nel corso della seconda guerra mondiale : eppure quarantamila di loro sono morti sul suolo italiano per tener fede a questi ideali ed affermare i principi delle nostre democrazie. attraverso questa difficile e dolorosa prova stiamo verificando se sarà possibile estendere al mondo intero, ed in primo luogo ad una regione nevralgica come il Medio Oriente , quelle regole, o regole simili, che per quanto riguarda il nostro continente abbiamo già codificato nell' atto finale di Helsinki e che sono divenute una realtà soprattutto dopo la grande svolta del 1989. nel Golfo si decide se saremo capaci finalmente di governare questo terzo dopoguerra, che segue una guerra fredda condotta nel silenzio delle armi, secondo regole diverse da quelle seguite in due occasioni simili in questo secolo. ripercorriamo le esperienze che furono, fra gli altri, di Woodrow Wilson dopo la prima guerra mondiale e di Franklin Delano Roosevelt e poi di Truman dopo la seconda. la Società delle Nazioni naufragò. anche per l' assenza degli USA, e le Nazioni Unite sono state a lungo paralizzate poi dai veti incrociati della guerra fredda . noi abbiamo la possibilità di un terzo tentativo. quello che sta accadendo nasce dall' esigenza di un nuovo tipo di dissuasione, capace di inculcare il rispetto delle regole delle Nazioni Unite a partners reticenti o ribelli, presenti o futuri. la strada del cedimento, come la storia ci ha insegnato, ci porterebbe una pace effimera oggi al prezzo di grandi disastri domani. lasciare via libera all' invasore del 1990 significherebbe con grande probabilità non dissuaderlo da nuove aggressioni in un futuro assai prossimo, contro l' Arabia Saudita , gli Stati del Golfo, Israele. noi europei dovremmo saperlo più degli altri, ricordando lo stolto entusiasmo di chi osò credere che la resa della Cecoslovacchia ad Hitler avrebbe assicurato la pace per tutto questo secolo. siamo quindi tutti spinti dall' esigenza di cogliere la grande occasione avviata dai cambiamenti del 1989 con la fine della guerra fredda e l' inizio di un forte taglio agli armamenti per arrivare ad un abbozzo di quel Governo mondiale oggi non ipotizzabile pienamente in termini immediati, ma che pure rappresenta lo strumento cui tendere gradualmente per realizzare domani una diversa convivenza internazionale. se avessimo consentito all' Iraq di annettere e di cancellare dalla carta geografica un altro paese arabo, quale diritto avremmo di chiedere ad Israele un negoziato conclusivo con i palestinesi, quali garanzie avremmo potuto offrire agli altri Stati del Golfo? lavorare per la pace significa dunque lavorare, innanzi tutto, per la credibilità e l' efficienza delle Nazioni Unite e per l' affermazione di tutti i principi contenuti nella Carta di San Francisco . il sostegno della nostra opinione pubblica all' azione del governo , confortata dall' appoggio del Parlamento, non può essere che a favore di questa scelta, che è poi quella dell' Europa e di tutta la comunità internazionale per la difesa della giustizia e della pace. non sappiamo ancora esattamente quale pace, giorno dopo giorno, sarà disegnata dalla crisi iniziata il 2 agosto. questo deve indurci alla cautela, come ha ricordato nei giorni scorsi il segretario di Stato Baker, nel delineare gli assetti futuri dell' area. è tuttavia indispensabile cominciare a riflettervi sin da ora. il ricorso alla forza da parte della coalizione è inteso a ridare indipendenza e sovranità al Kuwait e si presenta come attuazione puntuale delle decisioni delle Nazioni Unite . per essere giusta e duratura, anche la pace dovrà modellarsi su queste ultime. l' equilibrio che tutta la comunità internazionale ricerca dovrà essere deciso in primo luogo dagli Stati dell' area, dagli Stati, cioè, più direttamente interessati. sarà a vantaggio di tutti promuovere una sistemazione fondata su una forte base locale ed internazionalmente garantita. per i paesi del Medio Oriente sarebbe questo anche il miglior modo di promuovere il loro progresso economico e sociale , evitando le ripetute catastrofi degli ultimi anni e le massacranti spese militari, purtroppo favorite dagli interessi mercantili di tanti paesi industrializzati . dobbiamo avere ben chiaro l' impegno che incombe sulla comunità internazionale tutta intera, perché subito dopo la fine del conflitto non si apra un vuoto di iniziative diplomatiche. esso sarebbe tanto più visibile se continuasse ad essere assistito dall' unità e dalla determinazione mostrate nella condotta della crisi. e ciò appare tanto più necessario se vogliamo evitare l' emergere di nuove tentazioni distruttive, capaci di strumentalizzare le frustrazioni del mondo arabo . non saper organizzare la pace significherebbe suscitare altri falsi profeti, che troverebbero un terreno favorevole per riproporre scenari di riscossa solo apparente e per rilanciare la prospettiva di una possibile rivincita. dalla crisi del Golfo scaturisce per l' Europa comunitaria un duplice impegno: rafforzare la propria capacità di agire unitariamente sulla scena internazionale e contribuire agli assetti dell' area dopo la fine del conflitto. l' Europa dei dodici è stata presente in modo tangibile dal 2 agosto fino all' apertura delle ostilità. essa ha contribuito al consenso generale sulle sanzioni, che è anche il risultato dell' azione delle diplomazie europee. abbiamo registrato una minore coesione quando si è passati all' uso della forza. questa fase ha dimostrato tutta la fragilità degli attuali assetti istituzionali e la necessità di realizzare le riforme di struttura affidate alla conferenza intergovernativa apertasi a Roma a metà dicembre. l' Italia e l' Europa comunitaria hanno lavorato e stanno lavorando agli assetti futuri in stretto contatto, soprattutto, con gli USA, l' Unione Sovietica , i paesi arabi e quelli non allineati . a questo tema è stata dedicata in modo particolare la riunione dei ministri degli Esteri della Comunità, l' altro ieri a Lussemburgo. ci sono sul tappeto proposte di vari paesi che possono per molti aspetti essere ricondotte ad alcune alternative di fondo. la prima vuole risolvere immediatamente alcuni problemi tuttora aperti nel Medio Oriente attraverso il dialogo diretto tra gli Stati più direttamente interessati. in questa ipotesi si colloca anche la creazione di un sistema di sicurezza regionale, con il concorso dei paesi occidentali oppure limitato agli Stati del Golfo. una seconda ipotesi mira a cercare un assetto globale dei problemi del Medio Oriente attraverso quella conferenza internazionale finora inutilmente perseguita. il governo italiano , dal canto suo, ha messo sul tappeto, ancor prima del passaggio all' uso della forza, insieme ad altri paesi europei del Mediterraneo, una terza ipotesi, non alternativa, bensì complementare alle altre due, basata sulla applicazione al Medio Oriente di regole e di principi sul modello di Helsinki, da convenire in una conferenza dello stesso tipo, capace di codificare, sulla base di confini sicuri, riconosciuti ed internazionalmente garantiti, un modello di convivenza ispirato a nuovi criteri nei campi militari e della solidarietà economica, nonché alla tolleranza politica, religiosa e culturale. in Medio Oriente si porrà, infatti, innanzitutto un problema di sicurezza. ai paesi europei ed agli USA incomberà il dovere di evitare che una spregiudicata ed incontrollata politica di fornitura degli armamenti rilanci una corsa all' accumulazione di strumenti di distruzione di massa sempre più sofisticati. lavorare per la pace significa lavorare per il disarmo, evitare di rendersi complici di ambizioni egemoniche di questo o di quell' altro Stato. a tal proposito vorrei ricordare che l' Italia per prima ha posto, sin dal 1977 nell' ambito delle Nazioni Unite , il problema della disciplina del trasferimento di armamenti, soprattutto verso i paesi dell' emisfero meridionale. riproponemmo questa idea nella stessa sede dieci anni dopo, a conclusione del conflitto Iran-Iraq, ottenendo finalmente nel 1988 la costituzione di un gruppo di esperti governativi incaricato di studiare la questione in tutti i suoi aspetti. lo studio sarà completato quest' anno e potrà costituire la base per riproporre con ostinazione e con forza, alla luce della recente drammatica esperienza, la questione del controllo degli armamenti nell' ambito delle Nazioni Unite . abbiamo cercato, in verità senza successo, di avviare un' analoga iniziativa nell' ambito della Comunità Europea . oggi vediamo con soddisfazione, ma anche con un certo rammarico, per il tempo perso e per le resistenze incontrate in passato, che questo obiettivo figura in tutti gli schemi suggeriti al fine di aprire nel prossimo futuro una fase davvero nuova nella politica internazionale . Saddam Hussein con le sue aspirazioni egemoniche ha danneggiato gravemente proprio quella causa araba per la quale dichiara di battersi. ma non dobbiamo ritenere che il perseguire una causa giusta con strumenti sbagliati esima la comunità degli Stati dal riproporre con immediatezza soluzioni atte a dare una risposta soddisfacente ad aspettative che, nel loro nucleo centrale, costituito, appunto, dal problema palestinese, non possono essere ancora a lungo disattese. dobbiamo chiederci, anzitutto, in che misura le soluzioni sono affrontabili negli stessi termini che, segnatamente in Europa ed in una parte del mondo arabo , venivano sostenute alla vigilia del conflitto. la crisi del Golfo ha cambiato alcuni aspetti del contrasto storico tra Israele ed i suoi vicini e giustifica sia nuove speranze che nuovi timori. dovremo essere capaci di strutturare le novità per accrescere le prospettive di pace. basti pensare, a questo proposito, quanto lo stesso concetto di sicurezza si sia modificato con l' irrompere di nuovi strumenti di distruzione sul teatro mediorientale. dovremo, dunque, essere capaci di affrontare le novità per accrescere le prospettive di pace. chi invoca il diritto dei palestinesi deve farsi carico, in modo simultaneo e credibile, della sicurezza di Israele, capire le chiusure, le sordità, le diffidenze che nascono dalla paura. in questo senso la mancata reazione ai missili iracheni è stata una sofferta prova di autocontrollo e di senso di responsabilità , e, interrompendo la sequenza delle rappresaglie automatiche, ha vanificato il disegno di trascinare l' intera area nel conflitto. da sempre gli israeliani hanno difeso con gelosa intransigenza il loro concetto di sicurezza, senza lasciare interferire altri nella sua definizione. lo Stato ebraico ha fatto del diritto alla rappresaglia il dogma della propria sopravvivenza, un deterrente che, per rimanere credibile, non poteva conoscere eccezioni. ora, proprio gli attacchi missilistici di questi giorni, pongono in una luce diversa la realtà della sopravvivenza e della sicurezza di Israele e mostrano anche l' inadeguatezza di una garanzia cercata attraverso l' acquisizione di nuovi territori. noi dobbiamo fare in modo che anche da questi eventi emerga, parallelamente con lo sviluppo di una coscienza internazionale più attenta alle solidarietà, una maggiore disponibilità dello Stato d' Israele ad essere parte di un pur vasto sistema di sicurezza. io credo che l' Europa comunitaria debba riflettere ed agire con tempestività su questi problemi non dimenticando la dichiarazione di Venezia, ma tenendo conto degli insegnamenti successivi, inclusi quelli che scaturiranno da questo conflitto. l' Italia per parte sua ha sollecitato i Dodici in tal senso, a cominciare dalla riunione dei ministri degli Esteri del 19 febbraio scorso. occorrerà, dunque, riannodare i fili interrotti prima del conflitto, a partire da quell' ipotesi di elezioni nei territori occupati che può essere il primo passo per un processo graduale, pragmatico, verso un futuro di reciproca comprensione, mettendo da parte opposti estremismi ed intransigenze. in questa crisi alcuni paesi arabi ed Israele si sono trovati esposti agli attacchi della stessa provenienza. in questo c' è forse un possibile germe per abbattere il muro di incomunicabilità e cominciare a costruire una casa comune. Saddam Hussein ha cercato anche di far leva sulla miseria che avvolge tanta parte del mondo arabo , sulla disparità tra i singoli paesi in termini di ricchezza, di risorse potenziali, di prospettive demografiche e di altre caratteristiche. riteniamo che si imponga, subito dopo la fine del conflitto, uno sforzo di solidarietà sia tra i paesi arabi che da parte dei paesi occidentali. il governo italiano aveva lanciato per primo un' iniziativa di questo tipo, proprio all' inizio della nostra Presidenza comunitaria, attraverso la creazione — fra l' altro — di un istituto finanziario sul modello della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo dell' Europa orientale . la Commissione della Comunità Europea formula oggi una proposta analoga, che abbiamo ritrovato anche nelle più recenti dichiarazioni del segretario di Stato Baker al Congresso. su queste linee sarà necessario continuare a lavorare per creare le premesse economiche e sociali di una pace duratura. in Medio Oriente , infine, si pone un problema di convivenza e comunque di reciproca tolleranza, che è agli antipodi della cultura delle guerre sante . è anche doverosa una maturazione della democrazia, come altrove nel mondo, dall' America Latina al Sudafrica. sarà questa un' evoluzione che dovremo contribuire a favorire, prendendo anche in conto le prospettive di opinioni publiche non più docili e passive come in passato. mentre esaltiamo il ruolo delle Nazioni Unite , non possiamo dimenticare che la legittimazione della sovranità di una nazione — secondo una decisione unanime delle stesse Nazioni Unite — è posta nel popolo ed espressa attraverso elezioni periodiche e democratiche. signor presidente , onorevoli colleghi , queste sono dunque le considerazioni che hanno guidato le nostre scelte e che le guideranno nel prossimo futuro. non possiamo dividerci, non dobbiamo dividerci, tra chi vuole la pace e chi vuole la guerra, poiché il problema è per noi tutti come perseguire la vera pace. certe ingiuste polemiche di questi giorni ci colpiscono e ci offendono. già all' epoca della decisione dell' Italia di aderire al patto atlantico , nel 1949, vi fu un' analoga appassionata discussione: la storia si è incaricata di dimostrare la validità e la saggezza della scelta di allora, capace di garantire la pace e la sicurezza per oltre quarant' anni . oggi, la nostra ambizione è ancora più ampia. vorremmo costruire le fondamenta di un nuovo regolamento mondiale fondato sul rispetto e sul riconoscimento di una convivenza pacifica e di una osservanza del diritto internazionale , come sancito dalla Carta delle Nazioni Unite . questa nostra ambizione si fonda su un dato importante: la nuova collaborazione fra USA ed Unione Sovietica . questo, lo ripeto, è l' elemento nuovo, che emerge dalla distensione tra est ed ovest e che consente, proprio attraverso la cooperazione tra le due maggiori potenze, di fornire alle Nazioni Unite — per la prima volta dalla loro fondazione — la possibilità, direi anzi la capacità, di svolgere il ruolo che è loro proprio per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. noi dobbiamo saper sfruttare appieno questa situazione, capovolgendo così una prassi che era stata caratterizzata dalla quasi totale paralisi degli organi societari. il Vietnam ed il Medio Oriente , per limitarmi a qualche esempio, non hanno formato oggetto in passato di proposte di uso della forza in conformità con la Carta delle Nazioni Unite . ci sono stati — è vero — casi in cui il Consiglio di sicurezza è riuscito a decidere l' invio di forze dell' Onu o di gruppi di osservatori per la sorveglianza del cessate-il-fuoco, come in Libano, sulle alture del Golan, in India, in Pakistan, in Namibia ed ancora in qualche altra circostanza. ma l' approvazione della risoluzione numero 678 ha consentito per la prima volta nella storia l' uso della forza. anche il ricorso al diritto di veto da parte dei cinque stati membri sembra formare oggetto di una più attenta utilizzazione. così, il 12 ottobre dello scorso anno gli USA hanno votato a favore della risoluzione numero 672 di condanna d' Israele per l' uso della violenza nei territori occupati , capovolgendo la loro tradizionale posizione al riguardo. nel corso delle discussioni sulla crisi del Golfo, poi, i cinque membri permanenti hanno mantenuto fino ad ora una coesione che non era certamente pensabile fino a pochissimo tempo fa. di fronte alle tensioni drammatiche del passato l' Assemblea generale protestava, deplorava ma tutto finiva lì: nella maggior parte dei casi le questioni non venivano nemmeno portate in Consiglio di sicurezza , proprio perché si sapeva che il veto di uno o più dei membri permanenti avrebbe impedito di adottare decisioni vincolanti. questa situazione, anche se ancora da irrobustirsi salvaguardandola da infausti ritorni, è cambiata, in modo tale da aprire nuove prospettive per il futuro. paradossalmente ma non troppo, dunque, le prime affermazioni di un « nuovo ordine internazionale » passano anche attraverso la sconfitta delle ambizioni di Saddam Hussein . in altri termini, dobbiamo essere convinti che c' è l' occasione per un passo in avanti sulla via dell' organizzazione di un sistema di pace e di sicurezza internazionale e che questa occasione deve essere colta e voluta. di fronte alle grandi sfide del Duemila, di fronte al superamento del divario tra il nord ed il sud, di fronte ai rischi nucleari ed a quelli derivanti dal deterioramento dell' ambiente che non conosce confini di sorta, ci sembra di dovere cogliere nel loro significato reale le aspettative e le ansie delle nuove generazioni, che sono indicative di una persistente inquietudine nel ricercare nuove forme di convivenza e, quindi, di società. e altresì certo che lo sforzo di immaginazione, di maturità volto a stabilire queste nuove forme trova ostacoli materiali oltre che psicologici. l' anacronismo è di vecchia data e l' immediato dopoguerra avrebbe certo potuto permettere di effettuare quelle scelte di una maggiore giustizia e di un più solido equilibrio cui i popoli usciti dall' immane tragedia degli anni 1939-1945 certamente aspiravano. ma se quell' occasione è andata sciupata, l' umanità di oggi, più ancora che cinquant' anni fa, avverte l' esigenza di dotare se stessa di strutture di potere in linea con l' evoluzione delle tecniche e, quindi, della società e dei rapporti sociali. in questo senso la crisi drammatica che stiamo vivendo quasi in prima persona attraverso i mezzi di diffusione di massa rappresenta una lezione che occorre ricordare e dalla quale dobbiamo trarre tutti gli insegnamenti necessari perché non abbia a ripetersi.