Giovanni SPADOLINI - Deputato Opposizione
IX Legislatura - Assemblea n. 38 - seduta del 03-11-1983
Sulla situazione nel Libano
1983 - Governo I Craxi - Legislatura n. 9 - Seduta n. 38
  • Comunicazioni del governo

onorevole presidente , onorevoli Deputati , nuovi drammatici avvenimenti hanno insanguinato Beirut e si sono intrecciati, in un viluppo complesso che sembra plasticamente rispecchiare la tragedia politica del Libano, con il filo della pace che si sta con trepidazione dipanando in questi giorni a Ginevra. c' è stato un variare imprevedibile della situazione: da un lato, l' irrompere in una già travagliata scena di guerra e di guerriglia del lato irrazionale del terrorismo senza volto e senza rivendicazioni, forse mosso da cupi fanatismi religiosi; dall' altro, il delinearsi di un risveglio di coscienza patriottica libanese con l' ipotesi di un Governo di unità nazionale in una più adeguata cornice costituzionale. eppure, questi dati nuovi non hanno alterato, a parere del Governo, il significato e gli obiettivi, delimitati ma essenziali, della nostra presenza a Beirut: hanno, al contrario, aggiunto ulteriori motivi di conferma ad una scelta che fu ed è sofferta, una scelta che è stata sempre consapevole dei gravi rischi politici e militari che implicava, che proprio per questo non si è mai abbandonata a ottimismi, né rubicondi né non rubicondi, ma alla severa coscienza degli interessi della pace, che coincidono con quelli dell' Italia e dell' umanità. perché motivi di conferma? perché nel crogiolo di una lotta politica armata che è sembrato mettere in pericolo la stessa sussistenza dello Stato libanese , la presenza della Forza multinazionale ha rappresentato un fattore inestimabile di stabilizzazione, un punto di riferimento al di sopra delle parti. nella Forza multinazionale , il contingente italiano, il più numeroso a terra, ha eseguito esemplarmente alla lettera gli ordini di rigorosa neutralità, di assidua missione umanitaria, di difesa intransigente dell' incolumità dei campi palestinesi contro qualsiasi offesa, di autodifesa solo contro attacchi diretti contro di esso. come responsabile della difesa nazionale, non avrei quindi che da confermare, dinanzi al plenum dell' Assemblea di Montecitorio, le linee guida già illustrate alle Commissioni esteri e difesa dei due rami del Parlamento fra settembre e ottobre; linee cui si è ancorata la missione del contingente italiano a Beirut, in perfetto ossequio al mandato ricevuto dal Parlamento nel settembre 1982, allorché venne ratificato, con voto quasi plebiscitario, l' invio del secondo corpo di spedizione italiano a Beirut, sull' onda dell' emozione e dello sdegno universali per i barbari massacri perpetrati a Sabra e a Chatila. missione di pace e non di guerra — come ha voluto opportunamente sottolineare, con la sua alta autorità civile e morale, il presidente della Repubblica — svolta in questi quattordici mesi nella chiara coscienza delle finalità e dei limiti entro cui essa va contenuta, senza forzature e senza sbavature, né sul terreno politico né tanto meno su quello militare. per giudizio unanime degli osservatori stranieri e delle stesse parti impegnate nel conflitto, il contingente italiano non si è allontanato dalla linea di assoluto equilibrio e di costante prudenza nell' assolvimento dei compiti di protezione dei campi profughi palestinesi, anche nei momenti in cui la tensione nella capitale libanese ha raggiunto le sue punte più alte, e in cui sarebbe stato fin troppo facile cedere alle provocazioni cui pure la forza italiana è stata fatta oggetto, prima che venisse conclusa la tregua. una tregua fragile, contrastata, troppo spesso violata, che costituisce tuttavia un primo, e rilevante, successo politico per tutti coloro che operano in vista di assicurare al Libano una convivenza meno travagliata e accidentata dell' attuale. in una prospettiva di indipendenza e di integrità territoriale che si oppone ad ogni piano, neppure tanto occulto di spartizione. in occasione della mia visita al contingente italiano a Beirut, sabato scorso, ho potuto constatare de visu il sentimento di affetto e di riconoscenza nutrito dalle popolazioni locali — senza distinzione né di razza né di religione — verso i nostri soldati: sentimento che — voglio ribadirlo — rimane la miglior garanzia per la sicurezza del nostro contingente, al di là del complesso di misure di salvaguardia adottate dalla Forza italiana, misure che pure ho voluto ispezionare insieme con i responsabili dello stato maggiore della difesa e dell' esercito nel corso del sopralluogo a Beirut. si spiega così perché nessuna — dico nessuna — delle parti politiche presenti a Ginevra abbia richiesto il ritiro della Forza multinazionale e nessuna, in particolare, abbia mai pronunciato una sola parola contro la presenza e l' operato del contingente italiano. al contrario, è sotto la protezione dei nostri carabinieri paracadutisti che si è svolta, il 13 ottobre, la decisiva riunione preparatoria per l' incontro di riconciliazione internazionale e per la preparazione della sua agenda: era la premessa indispensabile degli attuali incontri di Ginevra. così come al nostro Governo è pervenuta, sia pure nei termini ancora generici e tutti da verificare — e ve ne parlerò più tardi — , la richiesta di invio di osservatori per la garanzia dell' attuale tregua d' armi. sono fatti politici indicativi di un clima politico, di giudizi politici precisi che le parti libanesi hanno formulato sul valore della nostra presenza a Beirut. e questa presenza non è solo una presenza umanitaria, anche se il fine umanitario è essenziale; è anche una presenza politica ma una presenza — consentitemi di applicare per un momento il linguaggio di casa nostra — di tipo politico-istituzionale. stando in Libano, la Forza multinazionale e gli italiani in essa vogliono sottolineare un punto solo e fondamentale: che vi è ancora uno Stato libanese , che vi è ancora la possibilità che la grande e terribile diaspora del sistema politico libanese possa riassorbirsi senza ulteriori spargimenti di sangue, con l' ausilio e il deterrente di forze di garanzia. ho detto a Beirut e ripeto qui che « lo straordinario modello di convivenza fra razze e religioni diverse che era il Libano, la nazione più prospera, la Svizzera del Medio Oriente , è stato spezzato dalle intolleranze e dagli odii di religione e di razza. ecco la prova di cosa può essere, nel mondo moderno, il fallimento della ragione » . e per ripristinare i diritti della ragione, cioè della tolleranza, della comprensione, del rispetto dell' uno per l' altro, noi siamo andati in Libano: secondo una decisione che, anche allora (anche in quel settembre 1982 che ricordo bene per i rimproveri rivolti al Governo del tempo per aver richiamato troppo presto il primo contingente di pace, per la pressione, rasentante l' impazienza, con cui fummo spinti ad agire), partiva dal consenso di tutte le parti contendenti. consenso senza il quale non ci saremmo impegnati nell' impresa. due erano i compiti della nostra presenza in Libano e due sono restati: la difesa dei palestinesi contro atrocità che potrebbero venire, in questo momento, non solo dagli autori del primo massacro (perché è chiaro che è cambiata anche la posizione di Arafat); l' aiuto al ristabilimento della sovranità nazionale nell' intero paese. il secondo compito non è oggi mutato ma si è fatto più complesso. siamo stati chiamati in Libano non dal solo Gemayel, che pure era il presidente democraticamente eletto da una vastissima maggioranza parlamentare , ma da tutte le componenti della complessa ed intricata realtà libanese, riflettente la stragrande maggioranza della nazione libanese. quella chiamata, originata dall' eccidio di Sabra e Chatila , trovò concorde nella risposta la stragrande maggioranza del Parlamento italiano. oggi, aiutare a ristabilire la sovranità nel Libano non significa aiutare Gemayel contro gli altri: significa aiutare e Gemayel e gli altri a ritrovarsi intorno alla comune patria libanese, in un quadro rafforzato di garanzie istituzionali, per poter chiedere ed ottenere il ritiro di tutte le truppe straniere dal Libano, da quelle di invasione di Israele a quelle di occupazione della Siria, a quelle di tutela della Forza multinazionale . ecco perché sono decisive per noi le valutazioni che scaturiranno dalla conferenza di Ginevra. per definire il nostro atteggiamento, noi abbiamo bisogno di conoscere quello che le forze politiche libanesi si propongono sul futuro assetto del paese e qual è, alla luce di tali propositi, la loro valutazione sulla presenza e sui compiti della Forza multinazionale . una loro valutazione negativa dovrebbe sicuramente provocare il riesame, da parte del Governo e del Parlamento, della nostra posizione. noi non possiamo rimanere in Libano un solo giorno di più se i libanesi non sono concordi sulla legittimità della nostra presenza. sarebbe assurdo e inconcepibile trasformare il nostro contingente da forza di tutela e di garanzia in forza di occupazione. di più: sarebbe contrario alla cultura democratica espressa dalla nostra Repubblica in quasi 40 anni di politica estera di pace: quella cultura di rispetto per la sovranità altrui, di simpatia verso le nazioni emergenti e verso i popoli più sfortunati; quella cultura democratica che rende i giovani militari di leva italiani così immediatamente consapevoli della loro missione e dei loro doveri in terra libanese. è questa cultura democratica che oggi ci rende orgogliosi di loro: essi sono prudentemente guidati e ben disposti sul terreno ed eseguono scrupolosamente gli ordini ricevuti. ma il loro impatto con la popolazione locale, con i rifugiati palestinesi che una lunga Odissea ha reso tradizionalmente diffidenti, è stato così positivo e così universalmente riconosciuto che non può essere solo frutto di specifica cultura militare. questi giovani portano con sé istintivamente il sentire profondo di un paese che vive per la pace, vuole la pace e ricollega il concetto di pace al rispetto dell' indipendenza, della individualità, dell' integrità territoriale degli altri popoli. innestate su una solida struttura di militari professionisti, su una moderna tecnica logistica e di difesa, queste reclute ci danno anche fiducia nelle forze morali profonde, alle quali può far capo l' avvenire del paese! risponderò sul volontariato più avanti, se lei mi lascia parlare! dunque, non volteremo le spalle al Libano, sino a che i libanesi ci chiederanno aiuto; non romperemo il mutuo patto che ci lega ad inglesi, americani e francesi: vi sono doveri di solidarietà internazionale che non si esauriscono solo con gli aiuti ai paesi in via di sviluppo ; vi sono leggi non scritte ma più vincolanti di quelle scritte, la cui osservanza o violazione è decisiva per quello che uno Stato, il suo lavoro, la sua stessa immagine civile sono nel mondo! non si tratta di neonazionalismo, al contrario: si tratta di tutela delle stesse fondamenta delle istituzioni repubblicane e la fiducia dei nostri stessi concittadini sarebbe scossa, se abbandonassimo i libanesi — che ci chiedono aiuto — ad un loro oscuro destino di guerra di tutti contro tutti; se abbandonassimo le nazioni amiche ad un compito che la nostra assenza renderebbe (senza infondate od ingenue presunzioni) enormemente più difficile. da qualche parte si è ventilata l' ipotesi di fissare un termine alla nostra presenza: che senso ha profetizzare una data, se la nostra... lei interrompe, ma non legge nemmeno gli accordi internazionali ! nel documento del Parlamento, sta scritto: entro il più breve termine possibile, che evidentemente non è un termine! signor presidente , io chiedo un po' di tutela contro questi nostri amici radicali; avranno diritto ad interrompere, ma è impossibile continuare così! se la nostra presenza nel Libano fosse illegittima e contraria agli interessi nazionali , non avrebbe senso alcuno prorogare, anche di un solo giorno, la permanenza lì. posso assicurare che — come è ovvio e tecnicamente elementare — i piani di sgombero (via mare e via aerea) sono stati approntati per ogni situazione di emergenza: tutto è stato previsto e basterebbe impartire un ordine perché scatti il dispositivo di ritiro, in tempi assai brevi. ma se la nostra presenza, alla luce di quanto avverrà a Ginevra, non è illegittima né contraria agli interessi nazionali , sarebbe un atto di grave responsabilità nei confronti di tutti il fissare unilateralmente una data di ritiro. certo, non possiamo restare in Libano indefinitamente: siamo e ci sentiamo stranieri, come ho detto due mesi fa in Commissione alla Camera, sia pur chiamati e bene accolti da una nazione amica, né possiamo prevedere di prolungare a tempi indeterminati rischi e sacrifici, anche di natura finanziaria, che alla lunga potrebbero risultare insopportabili. sarebbe quindi più saggio che il Governo ed il Parlamento si dessero precisi appuntamenti per verificare il punto di evoluzione della situazione libanese, senza però fissare termini iugulatori di permanenza, che potrebbero compromettere sviluppi politici positivi, affidati al tempo, sotto l' ombrello di sicurezza della Forza multinazionale . mi si domanda ancora una precisazione sul volontariato: è un punto che avevo già chiarito nelle Commissioni difesa della Camera e del Senato. il solo criterio del volontariato, adottato nel luglio-agosto 1982 per la prima spedizione a Beirut e limitato ad alcune centinaia di unità, non era sufficiente a fronteggiare le accresciute esigenze sul piano, sia numerico sia qualitativo, del secondo contingente. per quanto riguarda la truppa, il nostro esercito è infatti in prevalenza composto da personale di leva, e solo in parte da personale a lunga ferma per incarichi speciali. ciò comporta che nelle unità la presenza di militari a lunga ferma è alquanto esigua; occorrendo inviare unità addestrate ed affiatate, era impossibile ricorrere ai soli volontari. come ho dichiarato in Commissione e ripeto, il contingente è pertanto composto essenzialmente da militari di leva e solo i quadri ufficiali e sottufficiali sono di carriera ed a lunga ferma (450 uomini su un complesso di 2.044). non è stato mai applicato, né si poteva applicare, il codice penale di guerra (rispondo così ad un altro dubbio sollevato); ciò d' altra parte fu già affermato da me in occasione del dibattito svoltosi presso le Commissioni riunite esteri e difesa del Senato. signor presidente , onorevoli Deputati , permettetemi ora di ragguagliarvi su due temi di grave rilievo politico-militare, attinenti l' uno alle misure di sicurezza del contingente italiano, l' altro alla questione dell' eventuale invio di osservatori per la tregua. ma prima consentitemi di rivolgere, a nome delle forze armate , un grato pensiero al presidente della Repubblica che ha scelto di celebrare il 4 novembre, lui antico combattente dell' ultima guerra del Risorgimento, proprio tra quei soldati italiani che nel Libano, con tanta generosità, stanno difendendo le speranze di pace nel mondo. per quanto riguarda il primo aspetto, reso tragicamente attuale dagli atroci attentati di Beirut, relativo alle misure di protezione adottate dal contingente italiano — misure adottate fin dall' inizio e progressivamente incrementate nel corso dell' anno trascorso di permanenza — devo fornire alcune precisazioni alla Camera. tutti gli accampamenti del contingente italiano sono stati dotati di ricoveri sotterranei in grado di fornire piena protezione anche nei riguardi di granate di artiglieria e di razzi muniti di spoletta ritardata. inoltre ogni nucleo-accampamento è stato circondato da un grande terrapieno, sormontato da ulteriori protezioni del tipo « concertina » , ossia rotoli di filo spinato , o del tipo rete metallica. gli ingressi e le finestre sono stati rafforzati con sacchetti di sabbia e sbarrati con cavalli di frisia . le sentinelle sono state poste in profondità ed in posizione protetta. esistono misure di allarme graduate in modo crescente sulla base della situazione in atto. tali misure, adottate prontamente su ordine del comandante del contingente, hanno consentito di gestire con danni limitati le diverse situazioni di crisi. la seconda questione investe l' ipotesi di impiego di un corpo di osservatori italiani come garanti della tregua nella tormentata regione dello Chouf. il governo italiano ha espresso e ribadito, anche all' indomani dei barbari attentati ai contingenti degli USA e della Francia, la propria disponibilità di massima a tale invio, ma subordinandola a precise condizioni che non si sono realizzate e restano tutte da verificare. vorrei ricordare, non senza una brevissima cronistoria dei fatti, che l' esigenza dell' invio di osservatori fu inizialmente rappresentata, nello scorso settembre, dal presidente Gemayel all' Onu e da questa organizzazione respinta per l' impossibilità di realizzare la necessaria unanimità. il governo libanese si rivolse allora ai contingenti italiano e francese, ai quali richiese complessivamente circa 250 uomini per attivare in modo continuativo undici punti di osservazione e di controllo, ciascuno con cinque unità. in epoca successiva, più precisamente il 16 ottobre, lo stesso governo libanese avanzò, ufficialmente ma con nota verbale, una generica richiesta di 400 osservatori italiani ed altrettanti greci per il controllo del mantenimento della tregua. a tutt' oggi questa richiesta non è stata meglio definita, nel senso che non è stata fornita alcuna precisazione in ordine né allo status degli osservatori, né alle zone in cui dovrebbero schierarsi, né ai compiti che verrebbero loro affidati o alle modalità di assolvimento dei compiti stessi. ora tutto è legato al filo di Ginevra e condizionato agli esiti della conferenza. previsioni non sono possibili, ma non si può escludere che le trattative per giungere a tale accordo non risultino né facili né brevi e che, conseguentemente, l' esigenza dell' invio degli osservatori non solo non decada, ma sia destinata a prolungarsi nel tempo. in quest' ultima eventualità la richiesta rivolta dal governo libanese all' Italia ed alla Grecia potrebbe essere non solo confermata, ma anche estesa ad altre nazioni ed accompagnata da proposte che dovremmo essere preparati a discutere ed, eventualmente, a controbattere alla luce di criteri inequivocabilmente precisi e chiari, intesi a salvaguardare gli interessi generali nazionali e quelli delle forze armate . a tal proposito devo anzitutto ricordare che la costituzione di un corpo di osservatori, quale quello ipotizzato dal governo libanese, non ha precedenti nel periodo intercorrente fra la fine del secondo conflitto mondiale ed oggi. ad eccezione della Forza multinazionale per il Sinai, infatti, i diversi corpi o nuclei di osservatori costituiti in tale periodo hanno sempre operato ed operano alle dirette dipendenze dell' Onu, che si colloca quale forza supernazionale al di sopra delle parti con compiti di pacificazione e mediazione, e sono stati sempre attivati con personale volontario. per il Sinai siamo di fronte a due parti o aliquote: la prima costituita da « forze » , cioè da nuclei militari con compiti di interposizione e presidio di zone; la seconda dai veri e propri « osservatori » , che non solo sono tutti civili (anche se alcuni di essi sono stati prescelti tra il personale militare che ha lasciato il servizio attivo in epoca recente per poter usufruire della loro preparazione militare), ma il cui status di civile è ben configurato e da tutti riconosciuto. devo inoltre aggiungere che gli osservatori della forza per il Sinai in primo luogo disimpegnano compiti limitati ad ispezioni, effettuate periodicamente o su richiesta, intese a controllare che nelle zone stabilite non vengano superati determinati livelli di presenza di militari e di armamenti appartenenti a due nazioni legittimamente riconosciute ed i cui governi sono consenzienti a tali controlli; in secondo luogo sono chiamati a controllare una zona che si potrebbe definire smilitarizzata, dal momento che sono esattamente definite le forze che vi possono permanere nella loro entità, natura e dislocazione. ben diversa è e sarebbe la situazione nello Chouf, ove non esiste una zona demilitarizzata e operano una pluralità di forze e di fazioni che non hanno uno status giuridico internazionale e non dispongono di una territorialità definita. ne deriva, da un lato, l' impossibilità di un raffronto fra gli osservatori della forza per il Sinai e quelli per il Libano, dall' altro il fatto che le condizioni di rischio in cui opererebbero i secondi sarebbero di gran lunga superiori a quelle, decisamente contenute, dei primi. pertanto, pur comprendendo le difficoltà e forse l' impossibilità di raggiungere il necessario consenso per attivare il corpo degli osservatori per il Libano, ponendolo alle dirette dipendenze dell' Onu, — e sarebbe, del resto, questa la soluzione di gran lunga preferibile — per contenere nei limiti di accettabilità il rischio cui i suoi appartenenti sarebbero sottoposti, il governo italiano ritiene irrinunciabile un coinvolgimento non soltanto formale delle Nazioni Unite nell' operazione. solo tale coinvolgimento potrebbe infatti garantire la necessaria copertura al corpo di osservatori, che dovrebbe comunque operare proprio nel pieno rispetto degli scopi e dei principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite , e su una base, la più larga possibile, di universalità. sempre al fine di assicurare la massima protezione agli osservatori in Libano, è necessario avere la certezza che tutte le parti in causa concordino sulla richiesta di osservatori e sui compiti che essi dovranno assolvere. la posizione di tali osservatori sarà infatti particolarmente delicata, difficile e rischiosa, in quanto dovranno operare in un ambiente spesso ostile ed insidioso e fra contendenti non sempre inquadrati in modo rigido e militare, ma piuttosto inclini ad iniziative — diciamo così — unilaterali. in tale contesto, appare pregiudiziale, e comunque indispensabile, il riconoscimento degli osservatori e l' impegno a garantirne la sicurezza da parte di tutti coloro che sono direttamente interessati al mantenimento della tregua, ovverossia di chi ha creato la situazione che ha portato a richiedere l' invio di osservatori. appare inoltre indispensabile prevedere, una volta che gli osservatori avessero raggiunto il Libano e cominciato ad operarvi, un loro ritiro immediato qualora il riconoscimento e la garanzia or ora ricordati venissero meno anche da una sola delle parti, oppure si verificassero violazioni continuate o reiterate della tregua. ma non basta. prima di assumere qualunque impegno dovrebbe essere stabilito, in modo inequivocabile, in un protocollo estremamente chiaro, che il compito degli osservatori sarà limitato ad una attività continuativa di sorveglianza ed escluderà pertanto qualunque azione intesa a prevenire, impedire o reprimere eventuali violazioni della tregua, fermo restando il riconoscimento agli osservatori del pieno diritto di autodifesa. ciò soprattutto allo scopo che qualcuna delle parti in causa pensi di utilizzare gli osservatori per propri fini, facendo loro occupare, di fatto, zone del territorio attualmente da esse non controllate. altrettanto chiaramente dovrebbero essere definite le modalità per l' espletamento del compito indicato e gli organismi cui gli osservatori dovrebbero fare capo e riferire. tali organismi dovrebbero — fra l' altro — essere rappresentativi, sia dal punto di vista militare sia da quello politico, non solo delle parti che hanno concordato la tregua, ma anche delle nazioni concorrenti alla sorveglianza del suo mantenimento, per fare sì che i rilievi e le segnalazioni degli osservatori non si trasformino in pratica in voci affidate al vento o, peggio, in informazioni sfruttabili da una delle parti per il raggiungimento di propri fini, che potrebbero anche essere fonte di ulteriori accresciuti rischi per gli osservatori stessi. in un protocollo aggiuntivo a quello generale, ma ad esso connesso per acquisire piena validità, dovrebbero essere poi definiti i settori di sorveglianza affidati alla responsabilità di ciascuna nazione che contribuisce all' attivazione del corpo di osservatori, evitando sovrapposizioni e commistioni di militari italiani con quelli di altre nazioni che eventualmente dovessero entrare a far parte del corpo stesso. la definizione di tali settori dovrebbe essere concordata fra le parti che si sono impegnate per la tregua e le nazioni interessate e, sulla base di questa definizione, a ciascuna nazione dovrebbe essere lasciata la facoltà di decidere, dopo opportuni sopralluoghi, sul numero dei posti di osservazione (fissi e mobili) da attivare e sui mezzi da utilizzare. nell' affrontare tali problematiche, una particolare attenzione dovrebbe essere posta per evitare frammischiamenti di compiti e responsabilità fra il corpo di osservatori e la Forza multinazionale di pace già presente in Libano. e ciò non solo fra le due forze complessive, ma anche fra i due contingenti nazionali che contemporaneamente potrebbero trovarsi in Libano. c' è un punto, infine, da non sottovalutare. nella scelta degli osservatori dell' Onu ci si è sempre ispirati al principio della volontarietà; principio che dovrebbe essere osservato anche per la scelta degli osservatori da inviare nello Chouf, soprattutto nella considerazione del notevole rischio esistente in tale area, con tutti i problemi che ne derivano, per un paese come il nostro fondato su regole diverse da quelle di altri paesi. ricordo che in Libano siamo i soli ad avere una forza di leva, perché sono professionisti i marines americani e professionisti gli appartenenti ai reparti francesi. sarebbe auspicabile che ad un qualunque impegno per gli osservatori, qualora dovesse essere assunto alle condizioni indicate, corrispondesse almeno una revisione dei compiti riservati al contingente italiano, condizione indispensabile per ridurre l' entità di tale contingente e non incrementare ulteriormente la presenza italiana in Libano, sempre qualora fosse decisa una nostra partecipazione al corpo di osservatori. concludo su questo punto. non possiamo accettare eventuali richieste concrete di partecipazione alla costituzione del corpo di osservatori per il Libano senza averne prima valutato gli intrinseci elementi tecnico-militari, soprattutto sotto l' aspetto della sicurezza del personale; il che sarà possibile fare solo dopo la definizione chiara ed univoca dei settori che verrebbero posti sotto l' eventuale responsabilità degli osservatori italiani, dei compiti che verrebbero loro affidati e delle modalità per assolverli. in sintesi, quale responsabile politico del dicastero della difesa e degli interessi delle forze armate nei confronti del Parlamento e del paese, ritengo mio preciso dovere rappresentare l' opportunità e la necessità di affrontare il problema procedendo con estrema cautela e tenendo ben presenti i punti che ho precedentemente espresso e che non sono — lo ripeto — rinunciabili. onorevole presidente , onorevole deputati, noi non ci facciamo illusioni sugli ostacoli che la conferenza di Ginevra dovrà incontrare sul suo cammino. le posizioni delle diverse parti sono ancora lontane fra loro. le ferite delle aspre battaglie combattute nei mesi scorsi non sono ancora rimarginate. i solchi scavati dalle opposte intransigenze non sono colmati. ma un processo si è avviato, e noi ci auguriamo che esso possa giungere in porto , ricomponendo il complesso mosaico libanese secondo quell' equilibrio di popoli, di religioni e di razze che può reggere solo all' insegna della tolleranza e del mutuo rispetto. altre strade non vediamo. non è certo un caso che il sinistro riesplodere della violenza terroristica a Beirut coincida con una fase in cui finalmente emerge qualche iniziale nota di ottimismo. c' è sempre chi lavora per il « tanto peggio tanto meglio » , perseguendo un piano di destabilizzazione in Medio Oriente . piano che va ad ogni costo fronteggiato, mantenendo i nervi saldi, respingendo le provocazioni da qualunque parte provengano, perseverando in una direttrice che affida al dialogo e al negoziato la ricerca delle condizioni di pace. un punto è certo. nessuna decisione sul futuro della Forza multinazionale di pace può prescindere dalla conferenza di Ginevra, che rimane per il governo italiano un punto di riferimento fondamentale, anche perché una soluzione per il Libano, agli occhi dell' Italia, ha sempre costituito un aiuto alla soluzione del problema di una patria palestinese, cioè al superamento della controversia fra arabi e israeliani nella linea della dichiarazione di Venezia. è chiaro che un decisivo passo avanti lungo la via della riconciliazione, ufficialmente sancito dalla conferenza di pace, verrebbe a svuotare, in tutto o in parte, il compito essenziale di interposizione che oggi è affidato alla Forza multinazionale . in che modo? in che forme? allo stato degli atti, a meno di non voler formulare profezie, è impossibile predeterminarlo. così pure è impossibile stabilire a priori , al di fuori di ogni strumentalizzazione propagandistica, quale dovrebbe essere la nostra funzione, qualora emergesse l' impossibilità di raggiungere un accordo fra le parti in conflitto. certo, si renderebbe necessaria una rimeditazione complessiva sul ruolo del contingente di pace in una situazione aggravata che, a quel punto, rischierebbe davvero di sfuggire al controllo di tutti. due punti, in ogni caso, debbono restare, in via conclusiva, fermi. il primo è il nostro impegno per la pace in un' area cruciale per gli equilibri mondiali, qual è il Mediterraneo, attraverso le necessarie assunzioni di responsabilità. scegliendo di andare a Beirut non abbiamo certo inseguito calcoli di prestigio o ambizioni di potenza: siamo in Libano perché abbiamo compiuto una precisa analisi politica, e perché abbiamo risposto a un alto imperativo morale. la difesa delle ragioni della convivenza è qualcosa per cui vale le pena di battersi, in primo luogo nel nostro stesso interesse. il secondo punto fermo è che l' Italia non deve smarrire il raccordo con i propri alleati. abbiamo assunto un impegno ed ora dobbiamo onorarlo. una decisione unilaterale di ritiro, sottratta alle necessarie consultazioni con USA, Gran Bretagna e Francia, annullerebbe di colpo tutto il patrimonio di stima e di ammirazione che i nostri soldati hanno saputo meritarsi. abbiamo svolto finora la nostra missione con dignità, e vogliamo lasciare una Beirut, auspicabilmente riappacificata, a testa alta .